L’IRA DI BASILETTO
Giuseppe Basili era di Farnese, lo chiamavano Basilietto, anche se si trattava di un trentenne energumeno atletico e muscoloso. Fortissimo, era anche irascibile, feroce ed avido; pieno di cieca cupidigia ed ira folle, avrebbe detto Dante.
Simile a lui era suo fratello Giovanni Battista, detto “Paro Paro”, un mezzo fuorilegge che frequentava le macchie dei Monti di Castro, dedito al pascolo abusivo ed all’ uso del famoso marchio a pala.
Ancora oggi a Farnese, giocando a carte, se qualcuno dice: “Paro!” (Pari!), altri risponde: “Paro Paro m’ha fregato le vacche”.
Basilietto odiava i mercanti, perché avevano la strana pretesa di farsi pagare la merce. In particolare, ce l’aveva a morte con Felice Gentili, un piccolo possidente di Farnese, che aveva avuto la malaugurata sorte di vendergli un rubbio di grano, che il Basili si era ben guardato dal pagare. Ogni richiesta di pagamento scatenava l’ira feroce di Basilietto e, spesso, soltanto la presenza di altre persone, aveva salvato il creditore da una morte prematura.
Fu così che una sera, rincasando dal Lamone, sulla strada delle Piane, con una scure sulla spalla, all’ingresso della strada del mulino, dove oggi si trovano i giardinetti pubblici di Sottocolonne, il Basili incontrò da solo il Gentili e, senza tanti complimenti, gli assestò un colpo di accetta nel petto, uccidendolo.
Fattosi latitante, si unì a Tiburzi e Biagini che, in un primo tempo lo accolsero. I due famosi briganti, entrambi di nome Domenico (o Meco come si diceva localmente) facevano coppia da anni ed avevano creato un esemplare sistema di controllo del territorio, in cui i latifondisti ed i ricchi pagavano loro la cosiddetta “Tassa sul Brigantaggio”, eventuali malintenzionati venivano ferocemente eliminati, i rappresentanti delle forze dell’ordine non erano toccati; mentre ogni forma di agitazione sociale trovava i due Mechi pronti a sedarla, doppietta alla mano. Presupposto fondamentale di questo sistema era la sua accettazione da parte di tutti, anche perché quei celebri briganti, si può dire, usavano il guanto di velluto, agendo senza odio e senza particolari manifestazioni di rancore, tranne che nel caso di spie od altri briganti troppo intraprendenti.
Basilietto si dichiarava nemico dei mercanti. Li voleva sterminare tutti, si diceva pronto a “mangiare loro il fritto”. Un giorno, presso la località del Vepre sequestrò uno di essi, un certo Francesco Maioli di Ischia di Castro. Portatolo nella macchia della Selvicciola e fattagli la richiesta di un riscatto di quattromila scudi, per ingannare il tempo, in attesa che giungessero i soldi, cominciò a tormentare la povera vittima con minacce feroci, infiorate da bestemmie sonore e, per impaurirlo, gli appoggiava le canne della doppietta ora sulla bocca, ora sulle orecchie, facendo scattare i cani; quindi con il pugnale cercava di cavare gli occhi al povero disgraziato. Ci volle tutta l’autorità di Tiburzi e Biagini, chiamati da qualcuno, per impedirglielo. Maioli pagava la “tassa” e quindi godeva della protezione dei due briganti.
Basilietto odiava i carabinieri e non mancava di beffarsi di loro, di minacciarli o di tentare di ucciderli.
Tutto questo non piaceva ai suoi compagni, in quanto rischiava di mandare a monte anni di intelligente attività di estorsione istituzionalizzata.
Frequenti erano le liti. Soprattutto quando i vecchi briganti invitavano il giovane scapestrato alla calma, a non accanirsi contro i ricchi. Basilietto li voleva ammazzare tutti, voleva bere il loro sangue. Che specie di “mangiauffo” vigliacchi erano quei due compagni, che sembravano più contabili di un’esattoria, che briganti. Come facevano, appunto, a dirsi briganti se non minacciavano, se evitavano i carabinieri, se Biagini stava sempre a baciare le immagini sacre e portava gli abitini. Se non la smettevano di rimproverarlo avrebbe ammazzato pure loro. Stessero attenti!
E così continuò a rapinare i mercanti che tornavano dalla fiera, minacciandoli orribilmente.
A Tiburzi e Biagini questo non piaceva e cominciarono a pensare a come poter eliminare quel porco, qualora se ne fosse presentata l’occasione. E l’occasione venne. Un giorno, i loro attendenti, tra cui forse lo stesso Basilietto, catturano un giovane pittore, scambiandolo per un ricco nobiluomo. All’atto dei fatti, il sequestrato si dimostrò essere uno squattrinato, che aveva in tasca si e no ventidue soldi e che campava realizzando qualche affresco nelle residenze dei possidenti.
Tiburzi, facile alla commozione, ergendosi a protettore degli artisti, regalò due scudi d’argento al povero ragazzo e lo liberò, raccomandandogli di non raccontare in giro la vicenda e facendolo accompagnare, fino alla strada maestra, da Basilietto. Questi, che aveva seguito tutta la vicenda, mentre si inerpicavano su un alto dirupo scosceso, nel cui fondo si stendeva una macchia di arbusti impenetrabile, “uccise per la strada a mano ardita” il povero artista. Lo derubò dei soldi e ne gettò il cadavere in fondo all’abisso, sicuro che nessuno lo avrebbe scoperto.
Ma Biagini, che lo conosceva bene e sospettava, un giorno che trovò abbandonata la giacca “del brigante empio Basile”, frugandovi nelle tasche, trovò i due scudi d’argento. La misura era colma. Quello scapestrato “nefando e vile”, ancora una volta aveva disobbedito al volere di Tiburzi.
Senza farsene accorgere i due Mechi, anche per evitare rischi inutili, perché il loro feroce collega aveva una forza bruta straordinaria e pochissime remore ad usare le armi, pronunciarono la sentenza di morte e prepararono l’esecuzione.
Alcuni giorni dopo, il 14 luglio 1879, nel bosco secolare di Cerreta Piana, sui Monti di Castro, i due vecchi briganti preparano un lauto pranzo. Il vino scorse a fiumi e Basilietto alzò abbondantemente il gomito e si abbandonò ben presto al sonno. Anche i suoi compagni si prepararono dei giacigli ed iniziarono la siesta. Lo sfrasco di un cinghiale svegliò Biagini che, doppietta alla mano, andò a verificare. Nel ritornare, inavvertitamente urtò un piede del Basili che, tra una salva di improperi, minacciò il collega di morte, ricadendo ben presto tra le braccia di Morfeo.
Le urla avevano svegliato anche Tiburzi che chiese: “Che diavolo vuole quel porco?” “Siamo alle solite! ci penso io!”
Biagini si avvicinò al dormiente e gli scaricò addosso, a bruciapelo, la doppietta, un colpo alla testa ed uno al cuore. Ancora una volta l’inferno si apriva per accogliere un’anima nel “bollor vermiglio” del Flegetonte.